Tenebre e luce
[…] L’anoressia annebbia la mente. Le giornate trascorrono così, ora dopo ora: tutto il resto è noia, o meglio non è utile allo scopo. Che è unicamente uno: perdere peso. Certamente la malnutrizione, che lo si voglia o no, impatta fortemente sul tono dell’umore: il quale si lancia in altalene oscillanti e cambi repentini, irritabilità, intransigenza. E poi tristezza, una folle tristezza, che va conosciuta e quindi riconosciuta come tale, come una depressione secondaria al basso peso, impossibile da evitare – per quanto ci si ostini ad essere “sempre più forti”, sempre più rigide, sempre più in controllo. L’unica salvezza è recuperare il peso. E con esso, a rappresentare il mezzo e non il fine, si recupera se stessi. Si ritrova il riflesso della propria immagine reale e vera, di quello specchio diverso, abbandonando così il putrido specchio malato. Ci si rende conto solo successivamente, per chi ce la fa a vincere la battaglia, che tutto il resto di Sé in realtà nell’anoressia nervosa grave si squaglia, lo spirito come il corpo – perché la preoccupazione per il controllo dell’alimentazione e la pianificazione rigida di ogni suo dettaglio, oltre che di tutto ciò che serve per definire una forma del corpo da creare e mantenere stupendamente emaciata, toglie ossigeno a tutto il resto.
[…] Non basta certamente un piccolo capitolo di un piccolo libro, composto da poche pagine, qualche frase, per far capire a chi non l’ha vissuto quanto totalizzante e annichilente possa divenire il pensiero “malato” guidato da questa maledetta malattia. Dall’esterno ci si chiede spesso: come mai non se ne è accorta prima? Come ha fatto a ridursi così? Queste domande, anche se poi con una certa tristezza, trovano una risposta piena solo nella voce dei “sopravvissuti”. Solo grazie alla testimonianza di chi da quel baratro è uscito, lottando con tutte le proprie forze nonostante la distruzione fisica, emotiva, mentale, raschiando quell’ultima determinazione che a volte può permettere di giungere al miracolo. Chi questo tunnel lo ha percorso e chi dall’oblio è uscito DAVVERO, senza ripensamenti, senza mezze misure e senza compromessi – perché questa malattia prova a compiacere, a sfidare, a far credere che “un po’ meno sarà abbastanza”, quando così non è per niente – potrà erigersi a baluardo contro i pregiudizi, i preconcetti e le false credenze, permettendo a chi sta lottando di crederci davvero, perché quella luce esiste davvero. Ma la LIBERTÀ non ammette tentennamenti, compromessi, conciliazioni.
[…] Purtroppo l’anoressia nervosa confonde il sé e isola dall’universo. Incatena in una realtà “malata” e legata a comportamenti, preoccupazioni e regole impossibili da gestire e tantomeno da rompere, tanto è immenso il terrore di ciò che succederà sospendendole, anche solo per un momento, anche solo per una volta. E invece la salvezza è lì, racchiusa in questa sfida abissale: l’unico modo per raggiungerla è rinnegare questi comportamenti, queste preoccupazioni e queste regole, ma non “un pochino, e un pochino no così sono più tranquilla”, bensì completamente e senza voltarsi. E ci si accorgerà solo in questo modo che oltre la coltre di nebbia esiste la Vita da ritrovare, la propria Vita – con il proprio Io – puramente vera.
[…] Una sera al termine di quella maledetta estate, all’inizio dell’autunno, ero in cucina con una persona per me davvero speciale. Che mi ha guardata in silenzio e quindi mi ha detto, senza giudicarmi né volermi dare consigli, ma con tutta l’innocenza del mondo: «Perché non mangi? Devi mangiare di più, sei troppo magra. Sei meglio di così». SPLAF! Uno schiaffo. Uno scossone. Un terremoto inatteso. Una strambata. Questo evento ha permesso al velo di sollevarsi per un attimo, solo per un momento, per un secondo incalcolabile, quasi effimero, quasi impercettibile, eppure per quel tempo sufficiente a ridarmi per una seconda volta il mio specchio diverso, almeno di sfuggita, almeno nella consapevolezza perduta della sua esistenza, nella nostalgia del suo riflesso.
[…] Come potevo pensare di essere “migliore” in quello stato, anche e soprattutto per la mia famiglia, per il mio lavoro, il mio futuro, il mio essere, per la mia Vita: cosa stavo facendo? Davvero VOLEVO vivere in quella morsa, in quelle costrizioni, con quelle regole imbrigliate, oppure ero arrivata ad un punto in cui DOVEVO continuare a farlo, al prezzo di rinnegare me stessa? Mi sono guardata un’ennesima volta. Allo specchio. Respirando. Risettandomi. Resettandomi. Mi sono detta: «Questa non sei tu!». Ho capito che una situazione nata apparentemente come scelta non lo era più affatto, era solamente un assurdo PROBLEMA e avrebbe potuto solamente peggiorare, giorno dopo giorno, chilo dopo chilo, diventandolo poi anche per le persone a me più care.
[…] Per me ciò che più importa è che quel giorno, al cospetto di quella dolcissima persona, ho avuto finalmente la chiara consapevolezza che quella strada poteva condurre solo ed esclusivamente, a dire il vero inevitabilmente, alla rovina, e che purtroppo per abbandonarla non potevano esistere ancora una volta “mezze misure” o compromessi. Uno strappo. Un balzo. Un salto come a ritrovare l’uscita da un edificio che sta crollando sotto i propri piedi. Vita o morte. Salvezza o annientamento. Davvero VOLEVO continuare a vivere così? Non è stato difficile rispondere: la risposta era chiaramente un immediato NO. Quella strada la dovevo, o meglio la VOLEVO, abbandonare. Al mostro avevo già concesso troppa parte di me, lasciandomi risucchiare, ma potevo cambiare le cose, avevo la facoltà di farlo. La Libertà di scegliere. La forza di reagire. Tutta la capacità estrema che avevo speso nel raggiungimento di obiettivi folli ora potevo indirizzarla nell’altra direzione – anche se in questo modo era la paura di ciò che sarebbe stato ad essere immensamente folle, ma ce la potevo fare. Potevo vincere io. La mia Vita era ancora solida. La situazione era ancora reversibile, nonostante la gravità, quindi dovevo prendere una decisione. Subito, prima che fosse troppo tardi. La bilancia stava per arrivare a mostrarmi finalmente un 4-, al posto di un 7-, mancava così poco, ancora un piccolo sforzo… E invece mi sono detta: “NO. BASTA. ADESSO DECIDO IO”.
[…] La scalata successiva per lasciare quell’oblio e ritrovare la luce è stata a dir poco faticosa, quasi odiosa, stremante, come un ghiaione che ad ogni passo prova a farti tornare verso il basso, fiaccandoti e facendoti disperare sul successo dell’impresa. In vari dei miei passi il terreno ha ceduto, ma sono sempre riuscita a trovare nella polvere che si sollevava un appiglio tra le lacrime, una radice nel terreno, una roccia a cui aggrapparmi, pur con le mani sanguinanti. Mantenendo il mio notorio ottimismo nonostante tutto – e sono sicura anche quella tenacia con la quale sono sempre riuscita a spianarmi la strada nonostante gli ostacoli continui. Ma se ci ripenso bene, ancora oggi, gli occhi si commuovono davvero tanto.
[…] Chi si permette di giudicare un percorso di uscita da un disturbo dell’alimentazione, soprattutto se grave, soprattutto se a lungo incrostato in un nucleo profondo del Sé, anche se non ne conosciamo il motivo, dovrebbe capire che si tratta in effetti di una metaforica lotta verso, a volte contro, se stessi. Una messa in discussione di un proprio senso di auto-definizione e in fondo di auto-efficacia, che per qualche motivo si è formato e che ci si dispone a smantellare pezzetto dopo pezzetto, dopo averlo faticosamente costruito illudendosi che fosse una scelta. E allora si deve disintegrare qualcosa DENTRO di sé per ritrovare ciò che stava celando: come se la propria personalità, il proprio IO interiore, quello vero, fosse stato calcificato da una crosta di conchiglie aggrappate nel profondo alla carne del cuore, dell’anima, e come se questa incrostazione non permettesse più di vedere se stessi, rendesse manichini ciechi, sterili e ossuti, perseveranti verso l’oblio di obiettivi autodistruttivi e illusoriamente capaci di far mantenere un CONTROLLO che fa sentire unici. Drammaticamente SPECIALI. Per ritrovare il proprio vero cuore, la vera propria anima, questo strato malato va invece tolto, strappato, squartato, a costo di sanguinare, per poi guarire! Chi giudica questo come uno “smettere di fare i capricci perché non si vuole mangiare” diventa allora il vero e ottuso cieco.
[…] Qualche ricordo fisico di quella maledetta estate mi è rimasto, anche se non lo vorrei. Mi è rimasta una freddolosità molto importante, anche se non più estrema. Le mie dita non diventano più viola, il mio corpo non inizia più a tremare scattosamente con un gelo che entra dentro, profondo, nel sangue e nelle ossa, alla minima brezza. Ma il freddo lo sopporto comunque meno di prima, pur in un limite considerato tutto sommato abbastanza “normale”. Peggio, residuava in me forse uno strato di timorosità nell’esprimermi agli altri. Ma passo dopo passo sono riuscita sempre più solidamente a coltivare la pazienza, la bontà e la compassione, primariamente verso me stessa e spero anche verso gli altri, certamente più di prima e proprio grazie a questo percorso: il quale, per quanto non voluto, per quanto drammatico e per quanto logorante, complessivamente mi ha ricreata come una persona migliore. Ne sono certa. Assieme alle caratteristiche del disturbo dell’alimentazione, ho necessariamente messo in discussione certezze profonde, pensieri, schemi mentali e comportamenti, giudizi, atteggiamenti, precomprensioni – ancor più ed ancor più solidamente dopo la tragica ricaduta che ho vissuto. Con estrema fatica, ma con graduale successo.
Oggi sono chi sono anche grazie a tutto questo, ancor più consapevole di quanto la Vita sia uno splendido percorso, da vivere al meglio delle proprie possibilità e soprattutto in completa bontà. Un giorno raggiungeremo Itaca, ma la ricchezza sarà stata la strada, “fertile in avventure e in esperienze”, capace di essere nostra Maestra ogni giorno e in ogni momento se solo apriamo la nostra disponibilità all’ascolto, guidati dalle maree dei sogni.