La ricaduta
[…] Dunque, sono tornati i problemi. Non problemi preesistenti, bensì un periodo di generica stanchezza, tra tensioni altalenanti in famiglia e al lavoro. Nulla di grave o forzato, nulla di strano in fondo: si trattava di difficoltà generali che sono convinta esistano a tratti per chiunque. Però in me si è riacceso qualcosa di diverso, e la ricaduta è stata insidiosa. Il fatto è che non me ne sono letteralmente accorta! Il tutto è esordito sulla falsariga della prima volta. Un giorno mi sono guardata allo specchio e ho realizzato di essere grassa. Un attimo, un fulmine. Avevo un peso leggermente al di sopra di quello giusto per me: diciamo che mi collocavo circa quattro chili al di sopra del mio peso salutare.
[…] Come se con il corpo si deformasse e storpiasse nuovamente anche la mia mente, la mia intelligenza, la mia identità complessiva, IO. Anche se il mio peso era in un range completamente salutare – ma non era quello che volevo. Inspiegabilmente, dopo anni di completa liberazione da qualsiasi preoccupazione o pensiero tipico dell’anoressia nervosa, i numeri rifacevano capolino nella mia mente e con loro, soprattutto, la necessità di “riprendere il controllo”. Un brutto giorno, ancora una volta a ciel sereno, o perlomeno apparentemente così è stato, ho deciso ANCORA di fare una dieta. Bam! Una cannonata improvvisa. Ancora. Ero grassa. Il pensiero è tornato a pochi anni prima: se allora avevo fatto così in fretta a dimagrire, non c’era motivo per cui ora non ci sarei riuscita ancora. Squadra vincente non si cambia. E così, come una maledizione che agisce senza lasciare scelta, rieccomi DI COLPO, DI NUOVO e dopo cinque anni a scrutare i cibi, contare le calorie, semplificare le preparazioni, rallentare la masticazione, ridurre le porzioni, saltare i pasti, eliminare intere categorie di cibi. Con la differenza che stavolta il salto è stato più brusco, come a riprendere la situazione lasciata anni prima al punto in cui era arrivata. Sapevo già come fare. Era più facile…
[…] E così anche per la seconda volta ho inserito tutta la mia capacità di eccellenza nel raggiungere eccellentemente gli obiettivi di perdita di peso e di controllo dell’alimentazione. Fino in fondo. Fino all’ultima briciola. Improvvisamente dentro di me è nata di nuovo la necessità di ridefinire il corpo. Creare una nuova “ME”, o forse ridefinirla, ritrovarla, un Io che doveva riflettersi nel mio essere fisico. Da questa necessità scaturiva improvvisamente anche la regola di eseguire cinquanta addominali al giorno, cascasse il mondo. A cui poi se ne sono aggiunti altri, oltre agli squat, e poi alla corsa, e poi agli esercizi alla sbarra. Nel tempo ogni cosa assumeva un livello di magrezza o di grassezza: ma ripensandoci, col famoso senno di poi, so che una sfumatura di questa visione esisteva in me fin da bambina. Non so perché, forse questa cosiddetta “idealizzazione della magrezza” di cui tanto parlano i terapeuti viveva dentro di me naturalmente. Fatto sta che ogni cosa assumeva una connotazione di “linea”: c’erano sedie magre e sedie grasse, mobili magri e mobili grassi, telefonini magri e telefonini grassi, automobili magre ed automobili grasse, e via discorrendo. Qualsiasi cosa, un tavolo, una strada, una bottiglia, un vaso, davvero qualsiasi cosa, era magra o era grassa. Ed ovviamente c’erano persone magre e persone grasse, con cui il confronto in me era scatenato e scorticante. Ogni volta che vedevo una persona non in linea mi preoccupavo, ma lo facevo distortamente per me stessa, e allora sempre chiedevo al mio ragazzo: «Ma io sembro come quella? Che mostro» – e mi riferivo a me, oppure vedendo una bella donna ne invidiavo le fattezze.
[…] Un pomeriggio di qualche anno fa, in quel periodo maledetto, ho incrociato per strada durante una passeggiata una coetanea con il mio stesso identico vestito, esattamente lo stesso che indossavo anch’io in quello stesso momento e che in lei faceva risaltare ogni singolo rotolo di grasso, le stava oggettivamente male: credo di aver digiunato per qualche giorno, perché non potevo rischiare di apparire così – certo non ero io, e nel rivedere una mia foto con quello stesso capo posso garantire che più che la ciccia si potevano vedere gli ossicini, ma dentro di me mi sentivo enorme. Ora comprendo nitidamente il paradosso. “ENORME”, questa è la parola corretta. È quella che io stessa durante la rinascita e la lotta contro la mia anoressia ho sperimentato spessissimo ed è quella che provano tante altre ragazze, nel dire ai terapeuti “mi sento enorme”, che in realtà significa “SONO enorme”. Probabilmente chi non ci è passato, chi non lo ha provato, non lo può capire del tutto. Esistono terapeuti che, forse caratterialmente e forse per inclinazione e sensibilità personali, dimostrano una certa quota di empatia con la quale provano a capacitarsi di queste affermazioni, ma ahimè la sensazione è che queste stesse posizioni vengano lette nella maggior parte dei casi come una capricciosità, peggio ancora una richiesta di attenzione. Nulla di più sbagliato. Almeno nel mio caso, per le altre pazienti chissà. Nel mio caso posso dire che la sensazione era quella di ESSERE enorme, una mongolfiera, un pallone aerostatico, cose del genere. A dirla tutta, anche adesso a rari tratti mi sento così, ma ne sorrido. Sto bene, davvero bene. Ho superato fino in fondo il mio problema, mettendoci comunque tempo e fatica e rimanendo consapevole del fatto che una scintilla per qualsiasi motivo potrebbe un giorno tornare a riaccendersi: ma allora la saprò spegnere. Subito.
[…] Nonostante io abbia superato il mio problema, nonostante sappia razionalmente di avere un peso salutare e del tutto adeguato, nonostante abbia la piena consapevolezza della salubrità e bilanciamento del mio attuale stile alimentare, nonostante sia ben felice e sollevata del potermi concedere una pizza o una focaccia o perfino una fetta di tiramisù senza che questo faccia esplodere il mio peso – un fatto stupefacente, a cui non avrei mai creduto in altri periodi – nonostante queste e mille altre consapevolezze, io a tratti mi “sento” comunque grassa. Come quando ero bambina, se intravedo le mie cosce mi capita di vederle enormi. Vedo i miei fianchi, il mio addome. Se scruto senza soffermarmi troppo le mie gambe dall’alto poggiate sulla sedia, quando mi trovo seduta, le recepisco nei momenti peggiori come una massa gelatinosa strabordante e terribile da vedere. Poi osservo le foto che mi ritraggono e ammetto razionalmente di avere una linea adeguata: ma dentro di me resto comunque “GROSSA”. Lo accetto. Lascio andare. Sorrido. Io sono altro, ben altro. Mi guardo allo specchio ed oggi vedo realmente ME: non il riflesso costruito di una “me” impersonale e basata sul peso e la forma del corpo, bensì una “me” complessa, articolata, colorata e modestamente unica, come straordinariamente unica e meravigliosa è realmente qualsiasi persona al mondo. E qualche imperfezione non pesa più, non esiste più. Io sono molto più di questo. Di certo non sono un peso sulla bilancia.
[…] Quando ti senti grassa tutto il corpo urla: ogni parte, ogni area, ogni movenza, è colma di grassezza, di mollezza, di eccedenza inguardabile e davvero orribile, che non permette di guardarsi né di mostrarsi, non permette di sfiorarsi, non permette di muoversi. E invece poi, quando il peso finalmente cala, allora poi sì che ci si riesce a guardare e a toccare, e si tergiversa a sentire e risentire quella linea snella, quelle costole, quelle ossa dell’anca, quella schiena che non è più deformata dai rotoli di ciccia, controllando tutto sempre e sempre e ancora una volta per essere ben certi della situazione. Ma si resta comunque insufficientemente magri. Sempre. In una corsa verso l’auto-distruzione. Piacendosi di più – paradossalmente.
[…] In quella fase della mia vita, e si può dire del mio disturbo, avevo iniziato a comperare i vestiti un po’ più piccoli della mia taglia, sempre un pochino stretti. Con la cerniera che non si chiudeva. Così poi dovevo dimagrire per poterli indossare e ogni volta ce la facevo. Allora la mia taglia era diventata la XS anziché una M, o anche meno: una volta mi ero perfino piacevolmente sorpresa nell’acquistare dei capi nel reparto baby, taglia 10 o 12 anni. Una follia, pensandoci col senno di poi. Ma in quella maledetta estate tutto era largo, i vestiti XS erano larghi, cadevano morbidi. La bilancia mi mostrava un numero sempre più basso e finalmente il mio corpo andava bene. O così il disturbo mi faceva credere.
[…] In quel maledetto periodo di massima magrezza, quando il disturbo stravinceva ogni partita contro di me e mi faceva prosciugare come neve al sole, in pratica oltre venti chili fa, un giorno avevo acquistato una gonna. La conservo ancora, più che altro come monito. Quella gonna mi andava larghetta, ci stavo dentro comodamente, cadeva sui miei fianchi senza stringere e potevo far passare due dita nella cintura senza che aderisse al mio addome. Sopra il mio corpo attuale, ne riveste appena la metà: sul mio corpo “normopeso” e sano, di giovane donna tornata in salute riacquistando ognuno di quei maledetti venti chili, uno alla volta, lacrima dopo lacrima, boccone dopo boccone. Credo che questo possa raffigurare l’assurdo che muove una persona preda e vittima di un disturbo dell’alimentazione e dell’anoressia nervosa in particolare, divorata dal mostro. Senza rendersene conto.
[…] Nella mia iniziale ricaduta, comunque, non ancora a questi livelli assurdi di gravità (che ancora non immaginavo nemmeno), tante cose già le sapevo, tante strategie già le conoscevo, e forse proprio per questo è stata talmente facile. E insidioso. E quindi via alla nuova perdita di peso: velocemente i quattro chili attesi, quelli che mi spostavano dal peso che mi piaceva all’inizio. Ma perché fermarsi qui? E quindi ancora ne ho persi dieci, tredici, diciotto… Diciotto chili in pochi mesi. Tutti mi consideravano finalmente magra e in forma. Un successo straordinario. Di fatto non ero gravemente sottopeso, non lo ero ancora, anche se già ero certamente malnutrita. Le unghie, i capelli, la pelle lo dimostravano. Il ciclo saltuariamente non si presentava. Ma soprattutto le REGOLE che mi imponevo per mantenere quel peso e non ritrovare il mio peso “naturale” erano pazzesche. Inoltre avevo ripreso un po’ di attività fisica, la corsa in particolare, e quindi mi costringevo a farlo con frequenza crescente. Non certo per una questione di diverimento. Ed infine correvo per 20 km, una mezza maratona: non parliamo della corsetta della domenica. Però gestivo tutto al meglio. Non avevo limiti, non creavo problemi. Tutto funzionava davvero, davvero bene, e ho trascorso davvero un paio di anni in una bolla ben costruita. Anche se potevo essere catalogata a livello medico come “anoressia nervosa atipica”, di fatto mantenevo un peso minimo non problematico, il quale, pur in una carambola di iper-controllo ed attenzione disfunzionale, mi permetteva una vita normalmente funzionante. Positiva, articolata, posso dire allegra. Tutto funzionava bene, realmente bene: il disturbo aleggiava nell’aria, ma non mi aveva ancora fatto davvero del male. Non mi toglieva ancora l’aria per respirare.
[…] Stavo proprio (di nuovo) bene. Fisicamente. Ne ero convinta. I vestiti cadevano morbidi, in alcuni di essi navigavo perdendomi nella stoffa. Non sapevo che il mostro, con le sue lusinghe, mi aveva ripresa tra i suoi tentacoli come una succosa preda e avrebbe poi tentato di annegarmi nell’abisso più nero. Lo specchio tornava a farmi vedere quello che volevo e quindi era giusto così. Le cosce non si toccavano più, questo era fondamentale, direi vitale, e la pancia era quasi piatta, anche se mai abbastanza. Ma che bella sensazione quella di sentire le cosce finalmente lontane…
[…] E il mostro è divampato, come un incendio che nel vento che ulula devasta una foresta nell’aridità di agosto, senza pietà. Il peso minimo mai raggiunto l’ho mostrato pubblicamente in occasione di una grande festa con vecchi amici. Avevo ritrovato persone che non vedevo da tempo, incredule davanti alla mia “nuova” corporeità, non so se nel bene o nel male: oltre ai primi dieci chili persi, ora ne mancavano altri dieci. Conservo ancora le foto di quella “me” quasi trasparente, a dir poco emaciata, quasi scarnificata, perfino nel volto: nel picco di quella ricerca di una leggerezza impossibile, che paradossalmente pesa come il piombo e che, se non affrontata, conduce per mano verso la morte – prima emotiva, poi relazionale, poi personale. Poi letterale.
Io mi sono liberata dalla sua morsa, ma non per tutti è così e quindi desidero renderne testimonianza vera.