La risalita
[…] Dopo quel (secondo) brusco risveglio, dopo quella frase innocente che aveva squarciato il velo, ero uscita dalla fossa, ma avevo ancora davanti a me quella intera montagna da scalare. Ero tornata gradualmente al mio BMI di 18, partendo dal 15, ma sapevo che per me ciò non rappresentava una salute completa, una Vita definitivamente libera. Mi serviva e sceglievo invece di ritrovare una Libertà REALE, trasformando il DOVERE in ATTENZIONE: rimodellando le regole dietetiche rigide ed estreme in attenzione salutare ad un rapporto col cibo come pilastro per il benessere dell’Uomo. In cui credevo e credo ancora oggi con tutta me stessa.
[…] Si è trattato di un percorso, passo dopo passo. I passi in questo caso sono stati terapeutici e non reali, ma è giusto sapere che voler raggiungere il risultato completo subito, oppure preoccuparsi del dopo prima del necessario, non è utile: sarebbe come guardare dal basso una montagna e pretendere di raggiungere la cima da un momento all’altro, subito, adesso. Senza fatica. Senza sudore, senza consumare gli scarponi, senza inciampare mai. E invece si tratta di avanzare passo dopo passo con pazienza e costanza – e sulla cima ci si arriverà, per poter finalmente godere di un panorama pieno al di sopra delle nuvole! Se vogliamo descrivere fino in fondo il significato profondo e ultimo della lotta contro un disturbo dell’alimentazione – a tratti devastante, da compiere con i denti lottando contro quel mostro senza concedergli pietà – si tratta invero di una riscoperta tra le macerie di un Amore incondizionato verso se stessi, verso un IO che si ha per troppo tempo maltrattato, sminuito, insultato, mortificato, allontanato, annichilito, martoriato. Qualcuno dice per colpa di vissuti emotivi traumatici, qualcuno dice per colpa di un Amore di per se stesso mai ricevuto appieno durante lo sviluppo e la crescita fisica ed emotiva: chissà. Sono pure congetture, nulla di certo. Per me si è trattato di alcune settimane di profondo oblio, anche se pesantissime e percepite in modo infinito, per alcune persone parliamo di molti mesi o addirittura di anni.
[…] Le preoccupazioni che caratterizzano un percorso di terapia per superare un problema di anoressia nervosa sono inspiegabili e credo anche incomprensibili a chi non le conosce, tanto più a chi non le ha vissute. Senza volerle elencare o cadere in tecnicismi terapeutici, il concetto schietto è che la persona che affronta un disturbo così grave non sta solo “recuperando peso”, ma sta RI-RI-DEFINENDO se stessa in ultima analisi per ritrovarsi nel proprio vero riflesso, con un parallelo fisico, mentale, emotivo. Giorno dopo giorno, passo dopo passo. Bisogna ricostruirsi, come una costruzione Lego che si frantuma in mille pezzi e poi si ricompone, ma con pezzi diversi. Ritrovando quelli veri, quelli giusti. Bisogna mettere in discussione certezze faticosamente erette, binari rigidi dettati dalla psicopatologia, dai quali terrorizza allontanarsi. Bisogna scegliere di sperimentare nuovi modi, ritrovare vecchie strade, avere il coraggio di fare il grande passo, quel primo fondamentale passo, quel momento in cui per la prima volta si riesce a dire: «BASTA, io non ci sto più. ADESSO DECIDO IO!». Abbracciandosi. Amandosi.
[…] Spesso serve sostegno da terapeuti esperti, sperando di trovare subito quello giusto – pena il rischio di leggere un insuccesso come impossibilità di guarigione, o peggio come conferma del dover rimanere nel disturbo, anziché come pecca o limite della terapia stessa o di chi la somministra. Ho conosciuto vari terapeuti lungo la mia strada, anche se il mio percorso l’ho costruito da sola. Il problema però, che ancora mi fa rabbrividire, è che troppo spesso sentivo dire loro alle altre Pazienti, mie metaforiche compagne di viaggio: «Devi fare» questo o quello. Troppo spesso ho visto o sentito da parte dei terapeuti sguardi giudicanti, sospiri irritati, frettolosità nel voler chiudere un colloquio anche a costo di interrompere uno slancio emotivo o un momento di richiesta di aiuto, rimandato “al prossimo incontro” – come se fosse possibile. Come se, in fondo in fondo, anche qualcuno di loro fosse convinto che si trattasse solo di scena fasulla, o peggio di un bisogno di attenzioni o di una teatralità balorda.
Sostenere chi scegliere di “lottare” davvero contro il mostro per ritrovare la propria Vita è invece impegnativo per ogni singolo minuto di un’intera carriera e forse andrebbe vissuto quasi come una missione, una vocazione, un rendersi conto di essere capaci e all’altezza, mettendosi in discussione a propria volta con una indefessa disponibilità all’ascolto empatico ogni singolo giorno, ogni singola seduta, anche dopo tanti anni.
[…] Guarire non significa assolutamente “mangiare un po’ di più”: magari fosse così semplice. Il fatto, il passaggio fondamentale da chiarire e da capire, è che il non mangiare è l’espressione e NON la causa dell’anoressia nervosa. Certo per guarire il peso va recuperato, ma diviene la conseguenza dell’accettazione e costruzione di un cambiamento profondo e interiore. Interno, non esterno. Che si ottiene scalando la vetta. Passo dopo passo.
[…] Anche i passi indietro talvolta hanno fanno capolino nella mia scalata, fortunatamente in modo sempre più rarefatto nel tempo – ma la cosa più importante è che ho ben imparato a riconoscerli. Spesso si sono affacciati per colpa di eventi negativi, di emozioni avverse, soprattutto se importanti, soprattutto se fanno soffrire. A volte in modo blando, quasi irrilevante, a volte più crudamente. Addirittura hanno continuato a farlo anche come rischi di ricaduta anni dopo la guarigione. È capitato ad esempio in un momento di profonda devastazione, personale e familiare, per il lutto di una cara amica di famiglia. Non stavo in piedi. Quella sera, dopo aver salutato il suo corpo senza vita, sono tornata a casa e la mia mente non ragionava più. Non pensavo più, non capivo più nulla. E proprio allora quel mostro senza anima, la “mia” anoressia nervosa, ha avuto il coraggio di ripresentarsi. Smettere di mangiare mi avrebbe fatta star meglio. Subito. Mi diceva: fallo, solo per oggi.
Ricordo quella cena come fosse ora: mezzo uovo sodo e un cucchiaio scarso di riso lessato e scondito. È stata una cena lunga un secolo, per come l’ho vissuta. Mangiare quei bocconi è stato uno degli esercizi di terapia più struggenti che abbia mai dovuto affrontare. Inatteso. Inspiegabile con le parole il fiume in piena di quelle emozioni e sensazioni tormentate che non mi permetteva di afferrare le posate e che trasformava una quantità di cibo oggettivamente irrisoria in un ostacolo davvero insuperabile. Che sarebbe stato molto più facile evitare, per sentirsi meglio subito: e invece la consapevolezza in me mi ha permesso di volgere lo sguardo ad un futuro più vero. A mantenermi focalizzata sul mio “specchio diverso”. La mente urlava di digiunare, di non sedersi a tavola, di non alzare le posate. Ho osservato per un tempo infinito quei cibi. Una montagna. Era troppo, non ce la potevo fare. Invece, lottando con una tenacia angosciante, ho mangiato tutto quel mezzo uovo sodo e tutto quel cucchiaio di riso bollito. Faticosamente, quasi lacerata, piangendo, ma ci sono riuscita. Ed è finita lì.