Col senno di poi
[…] Ho ancora nell’armadio quella gonna, quella che vestiva così largamente e in cui ora non potrei nemmeno pensare di entrare. A volte la intravedo e a volte allo stesso modo mi chiedo che emozioni dovrei provare nel guardarla – e con lei, metaforicamente, nel guardare quella mia parte di vita. Forse invidia, visto che ora il mio corpo non è più così snello? Sicuramente se penso rapidamente ad un’idea di “sentirmi bella” non ho alcun dubbio, mi sentivo molto più bella allora. Eccome: infinitamente più bella! E quindi rimpianto? Rabbia, rimorso, tristezza? In realtà ciò che più si avvicina alla mia sensazione è la semplice e candida parola “tenerezza”. Tenerezza e accettazione verso quella mia feroce ostinazione, verso quelle mie devastanti paure, verso quella mia stridente sofferenza. Credo serva molto molto tempo per giungere a maturare un tale sentimento – senza con ciò voler pensare che tutti lo vadano necessariamente a sviluppare – e soprattutto serve acquisire una distanza terapeutica dall’abisso critico del problema grazie all’esperienza e alla conferma di una scelta quotidiana. Serve tempo.
[…] Parlo volutamente di scelta quotidiana perché proprio di questo si tratta: anche in questo caso non so se sia così per tutti e non so neanche se qualcuno lo possa realmente sapere, tuttavia nel mio singolo caso sento in me che la “fragilità” da cui tutto è scaturito, se così la si può chiamare, resta viva. La gestisco, la conosco. Respira in me, ma non la lascio divampare. Rimane un nucleo profondo, psicologico, emotivo. Lo mantengo circondato da un confine di luminosa felicità, e in questo modo l’abisso non potrà dilagare di nuovo. Questo confine certo rappresenta infatti quelle parti di me e della mia vita che ho scelto di ritrovare, ricostruire e coltivare a orgoglioso discapito del peso sulla bilancia e dell’importanza insidiosa e dilaniante che esso rivestiva: rappresenta tutto ciò che di me e in me non potrebbe esistere se mi rimettessi al servizio di quello che ho chiamato “oscuro padrone”. Ciò che io sono oggi, la donna che sono diventata e che perseguo nel costruire cercando di migliorarmi ogni giorno non potrebbe esistere se avessi scelto di rimanere uno scheletro senza anima, se non avessi scelto di riprendere il timone della mia nave navigando sulla convinzione che, sia questa realtà o sogno, una sola cosa importa: agire bene.
[…] Superare un disturbo dell’alimentazione, oltre che un viaggio, in fondo rappresenta alle volte un metaforico sogno: il sogno del “nuovo inizio” di cui parlano i terapeuti, il sogno di poter ritrovare se stessi, il sogno di liberarsi dalle catene che hanno trasformato un’iniziale scelta in un problema devastante e apparentemente incontrollabile. Se allora è vero che solo la paura di fallire rende impossibile la realizzazione di un sogno, è giusto testimoniare, da parte di tutte le persone che ce l’hanno fatta, che il miracolo è possibile. Non è raro che le Pazienti confidino che a volte smettono di lottare o sono tentate di farlo perché «tanto non ce la farò», «è più forte di me», «se provo e poi fallisco è peggio, meglio non provarci». Sono spaventate, quel padrone oscuro fa paura. Fa tantissima paura. Esso rappresenta simbolicamente quella “vocina nel cervello” che tutte nominano.
[…] Nell’anoressia nervosa quasi sempre è presente la paura acuta di ciò che potrebbe accadere in caso di interruzione di un comportamento, sia pur disfunzionale, sia pur talvolta rendendosi conto dei danni che provoca. Pensiamo alla restrizione fino al rifiuto alimentare o all’esercizio fisico finalizzato a mantenere un corpo emaciato. Si crea in profondità la certezza che se si facesse l’opposto, se una regola anche momentaneamente si alleggerisse, le conseguenze sarebbero disastrose. Si perderebbe il controllo, il peso esploderebbe, ma ancora più profondamente, forse, «non sarei più io» e nel dubbio di ciò che accadrebbe e di come cambierei risulta più sicuro rinforzare un controllo perseverante. Io personalmente vissi esattamente questo e la scelta di fare l’opposto di quanto mi donava sicurezza immediata fu quasi straziante. Poi però mi permise di rinascere. Completamente. Rinnovatamente.
[…] Tutto sta allora nel capire che quel sé attuale non è quello reale. Il vero sé si può ritrovare e riscoprire con infinita tenerezza, riprendendo questo concetto, solo nello strappare strato dopo strato ogni paura, ogni preoccupazione, ogni mantenimento che perpetua il problema soffocando la Vita, tornando a contemplare di nuovo oltre le tenebre il cielo azzurro dell’esistenza. Certo per farlo serve una forza non banale, motivo per cui personalmente nutro una profonda ammirazione verso tutte quelle persone, tanto più se adolescenti, ancora bambine o bambini e quindi nel contesto di una non-maturità piena ancora fisiologica, che però scelgono di affrontare un’impresa che richiede la forza intera di un eroe mitologico solo per ritrovare, o forse per conoscere davvero per la prima volta, la loro stessa Libertà.
Tu ne cede malis, sed contra audentior ito.